ZINGONIA

Il paese che non c’è
Intervista presa da Corriere Bergamo
Lei Zingonia l’ha vista nascere. In tutti i sensi, visto che in un impeto di entusiasmo ha chiamato Zingonia anche la propria figlia, («ma mettendoci prima Maria, altrimenti non me la battezzavano»). La signora Donatella, nata Pasquali nel Cremonese 76 anni fa e che oggi si presenta come Dini (da Lamberto, l’ex presidente del Consiglio e suo secondo marito) è più nota con il cognome preso dal primo consorte. Cioè quel Renzo Zingone che nei primi anni Sessanta aveva partorito l’idea della «città del futuro» da impiantare nel mezzo della pianura bergamasca e infine se n’è andato in Costa Rica lasciandola incompiuta. Donatella Zingone segue da lontano il declino di quel sogno ormai sfuocato e guarda crollare le torri che circondano la fontana a forma di missile figlia dell’epoca di esplorazione spaziale.
«Sì — sospira — so che c’è questa triste situazione che si trascina da tempo».
Partiamo dall’inizio. Nel 1964 lei ha 22 anni, è modella, pattinatrice e spadaccina. Renzo Zingone è molto più grande e separato. Come vi conoscete?
«Ero appena tornata dal Giappone dove avevo fatto da interprete alle Olimpiadi e ho letto un articolo su questa nuova città. Mi è sembrata una cosa molto moderna e visionaria e ho mandato il mio curriculum. Mi ha risposto direttamente Renzo Zingone, mi ha dato appuntamento per un colloquio nel suo ufficio alla Banca Generale di Credito, che era di sua proprietà, e mi ha assunto. Ho lavorato un po’ all’ufficio della Zingone Iniziative Fondiarie a Milano, ma dopo sei mesi mi sono stancata, sono andata via e ho messo su un’impresa di pulizie. Ma lui mi ha richiamata e mi ha detto: adesso ci diamo del tu e non ti lascio più scappare».
Erano gli anni della nascita di Zingonia, dei cartelloni con l’uomo che puntava il dito a terra e la scritta «Qui nasce la nuova città».
«Ci andavamo insieme una volta la settimana, in ufficio c’erano sempre clienti che volevano trattare con lui. Io ci ho messo del mio: ho progettato gli arredi del Grand Hotel, per esempio».
Com’era la città che nasceva?
«C’erano insediamenti che crescevano dappertutto. Molti non lo sanno ma la cosa fantastica di Zingonia è che ha un’infrastruttura pazzesca. C’è un sistema fognario in cui si può camminare stando in piedi e che va da un lato all’altro della città».
Come era nata l’idea?
«Mio marito veniva dalla brillantissima esperienza del Quartiere Zingone, che aveva realizzato in tempi molto veloci a Trezzano sul Naviglio: cose in cui ha anticipato di anni Berlusconi. Aveva in mente una proiezione futura da grande città. La visione era geniale: quella di creare una città industriale, una new town di tipo inglese con una pianificazione che prevedeva da una parte le industrie più grandi, dall’altra quelle più piccole, poi una zona centrale con delle villette e del verde a fare da filtro, poi un parco e una zona uffici. Ma il boom ormai si stava un po’ sgonfiando, tanti non hanno capito e abbiamo incontrato molte difficoltà».
Di che tipo?
«Il territorio di Zingonia è suddiviso in cinque Comuni e ognuno la pensava in modo diverso, qualcuno era favorevole altri erano contrari, poi i sindaci cambiavano, avevano orientamenti politici differenti e ricominciava tutto.
Non si poteva trattare?
Mio marito era refrattario ai partiti e alla politica, e quando qualcuno gli disse: “se paghi si sistemano tante cose”, lui rispose di no perché era orgoglioso. Diceva: non voglio piegarmi alla politica, siamo imprenditori privati e non chiediamo niente a nessuno. Ci hanno bloccato anche le licenze. Così alla fine ha detto basta e siamo andati all’estero, anche perché era la stagione del terrorismo. E abbiamo lasciato Zingonia non terminata. Poi è stata portata avanti da realtà locali ma non è mai diventata quella che era nel progetto originario».
È tanto che non torna a Zingonia?
«Sono molti anni, da un lato sarebbe emozionante ma dall’altro mi metterebbe tristezza. C’è andata mia figlia Maria Zingonia e mi ha dato informazioni non molto belle. So di queste benedette torri che stanno abbattendo, so dell’invasione che hanno avuto e del degrado che si è creato».
Vi siete trasferiti in Svizzera e poi in Costa Rica dove avete creato un impero immobiliare e dove nel 1981 suo marito è morto.
«Dopo la sua morte, non potendo gestire le cose da così grande distanza, ho venduto tutto. Io tuttora provo affetto e dispiacere per quel progetto perché non è stato possibile a portarlo a termine».
Suo marito ci ha più perso o guadagnato?
«Non ci ha perso, e prima di morire ha avuto la soddisfazione di riavere tutte le licenze. Ma ci pensava ancora spesso».
Intervista di Fabio Paravisi

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