LOCATELLO

Locatello [lokaˈtɛlːo] (Locadèl [lokaˈdɛl] in dialetto bergamasco) è un comune di 824 abitanti.
Il paese, composto da numerose contrade, vanta una storia millenaria: le prime tracce di insediamenti già in epoca antecedente all’Età del Bronzo furono rinvenute nelle due grotte ricavate nella roccia in località Corna Coègia.
Il primo vero documento scritto che attesta l’esistenza della comunità risale all’anno 975, e si tratta di un atto in cui si ribadisce la concessione feudale, effettuata direttamente dagli imperatori del Sacro Romano Impero, a favore del vescovo di Bergamo. Il toponimo, da cui prende il nome il nobile casato dei Locatelli, dovrebbe derivare dalla voce leukos, che in celtico indica un campo circondato da bosco.
L’epoca medievale vide imperversare nella zona scontri cruenti, molto più che nelle altre zone della provincia bergamasca, tra guelfi e ghibellini. Questo per il fatto che la valle Imagna, prevalentemente guelfa, era in netta contrapposizione con l’attigua valle Brembilla, schierata con i ghibellini.
Dopo continui ribaltamenti di fronte il dominio dei Visconti e dei ghibellini fu definitivo, anche se il rancore guelfo dava spesso seguito a rivolte popolari, avvenute anche a Locatello tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo e soffocate con le armi.
La situazione si rovesciò quando la zona, nel 1428, passò sotto il controllo della repubblica di Venezia che, in contrapposizione con i Visconti, sosteneva lo schieramento guelfo.
In ambito religioso riveste grande importanza la chiesa parrocchiale, dedicata a Santa Maria Assunta. Edificata nel corso del XIV secolo, ma più volte riedificata e ristrutturata, presenta opere scultoree lignee di pregevole fattura risalenti al XV secolo, nonché dipinti di buon pregio.
Altro edificio di carattere religioso che merita nota è la chiesetta di S. Luigi in contrada Disdiroli risalente ai primi del XX secolo.
il Ponte di Ca’ Prospero sul torrente Imagna, di origine medievale;
il Ponte Tinella sull’affluente Rosagatto (al confine con il comune di Corna);
il Ponte di Malisetti sempre sull’affluente Rosagatto;
il Ponte del Follo sull’Imagna.
Inserito in un contesto montano molto caratteristico, presenta luoghi di particolare fascino in stile rustico: ottimo esempio a tal riguardo sono gli edifici con mura in pietra e i tetti in piöde (lastre di pietra locale), situati in località: Ca’ Felice, Disdiroli, Bustoseta, Vaio e Ca’ Prospero.
Come per gli altri comuni della valle Imagna, caratteristiche del territorio sono le ancora presenti mulattiere ossia le antiche vie di comunicazione a manto in pietra locale.
L’economia della valle, fin dal trecento, fu fortemente legata al settore della lavorazione della lana. Tale filiera andava dall’allevamento sui pascoli locali fino alla vendita in città del prodotto finito (valdemagnum o drapos de Valdemagna) passando per le varie lavorazioni tra cui la follatura mediante lo sfruttamento della forza dell’acqua. Sul territorio comunale, vaghe tracce ricordano quei tempi, tra queste la località Follo [Fól] dove a testimonianza della vecchia arte rimane solamente l’edificio con il suo nome e l’adiacente Ponte del Follo [Put dol Fól], ultima possibilità concessa al viandante di immettersi sul versante di Rota.
In località Fucine [Füsìne], alla confluenza tra il torrente Coegia e l’Imagna, è invece presente ciò che resta di un importante borgo dove una volta la presenza di due ruote ad acqua permettevano il funzionamento di un maglio e di un torchio da olio. L’attività della lavorazione del ferro diede il nome alla contrada che rappresentava uno dei centri di maggiore transito a fini commerciali di tutta la valle.
In località Piazzola, al confluire del torrente Rosagatto nell’Imagna, si trova il più importante complesso industrializzato del paese. Qui, dalla seconda metà del XIX secolo, si iniziò a convertire il compito delle ruote ad acqua da attività di macina e torchiatura, per la produzione rispettiva di farina e di olio, in attività legate alla lavorazione del legno. Tale settore contraddistinse la contrada per oltre un secolo grazie anche, tra le altre, alle spiccate capacità imprenditoriali della famiglia Locatelli i cui manufatti in legno raggiungevano tutto il nord Italia.
“L’Ultimo Bergamino” è un film che narra una storia incredibile: quella di Carlo Rota, originario di Locatello, e un’intera vita dedicata alla sua attività da mandriano e casaro. Il docu-film, girato da Luigi Giuliano Ceccarelli e prodotto dal Centro Studi Valle Imagna è stato proiettato ad ottobre presso la Cantina Val San Martino di Pontida, con il patrocinio del Comune e della Pro Loco e dopo la proiezione la Cantina ha proposto la Cena del Bergamino con il vino del territorio ed il formaggio del bergamino.
”L’Ultimo Bergamino” è un film-documentario il cui protagonista è Carlo Rota, detto “Carlì”, la cui vita da mandriano e casaro è la testimonianza, vivida e necessaria, di un mondo che sta ormai scomparendo. La produzione sofferma lo sguardo su una stirpe di uomini che ha smesso di avere eredi, ma il cui patrimonio fatto di storia, riti e valori impone a noi contemporanei di proteggerlo e tramandarlo. Teatro di questo affresco è la Lombardia, dal Monte Resegone alla Bassa, e ci porta dritti nel romanzo della transumanza e di Carlino Rota da Locatello, ultimo Bergamino della Valle Imagna, attualmente 83enne.
A 6 anni ha iniziato a mungere, a 11 a fare il taleggio, a 18 ha dormito per la prima volta in un letto con le lenzuola («Mi sembró di esser in paradiso») e ha ricevuto un paio di scarpe, perché fino a quel momento era «sempre andato a piedi nudi». Poi i giorni e le stagioni sono passati veloci.
«Alla fine avevo le dita più grosse della mia testa», nessuno percorre più chilometri e chilometri a piedi, per andare dalla montagna alla pianura a svernare. «Si partiva i primi di settembre. Si caricava tutto su un carretto e poi via, a volte ci si metteva 4-5 giorni, anche una settimana per fare il trasloco». Sotto la pioggia e il sole, cani, mucche, bambini, donne, nonni, zii. Fianco a fianco, uomini e animali, perché «si voleva bene alle bestie, si pensava prima a loro e poi a noi». Avviene ancora: per loro niente mangime, ma solo farine di diverso tipo e pane duro, tagliato a pezzettini.
«Oggi l’allevamento è un lavoro meccanico — aggiunge Rota —. Il formaggio viene fatto nei caseifici. Ma fra piastrelle e cemento il latte non respira e piange».«Qui il latte respira ancora».
Dalle tecniche ai pascoli abbandonati, fino alle stalle ridotte a ruderi:«È cambiato tutto», dice scrollando il capo e regalando un sorriso che buca il cuore. L’unico a non esser cambiato è lui: «Io sono sempre quello», puntualizza fiero. La sua vita è passata veloce, «è stata dura, ma è andata così — commenta —. Sono diventato grande e vecchio con le mucche». Non ha rimpianti, anche se un dispiacere, a lui che ha fatto studiare quattro figli, è rimasto: «Non sono riuscito ad avere un pezzo di carta che attestasse i miei studi, per poche ore. Il 28 maggio dovevo andare a Treviglio per avere il diploma di Agraria. Quella stessa notte siamo partiti per il Resegone». Il nonno fu irremovibile. E, alla vicina che insisteva perché il nipote si fermasse un giorno in più per raggiungere la famiglia in seguito, rispose: «Non occorre il certificato per mungere le mucche!».

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